Se la psicoterapia è una “cura”, in che modo la “cura” dello psicoterapeuta è simile a quella del medico?

Non solo il termine “cura” a volte confonde le persone su ciò che realmente fa lo psicoterapeuta. Spesso anche il termine “paziente” (l’alternativa è “cliente”) genera degli equivoci.

La psicoterapia lavora in modo molto diverso dalla medicina. Un buon medico oltre che essere un buon diagnostico ed un buon terapeuta, probabilmente si mette in un rapporto umano col suo paziente e coglie la specificità di “quella” malattia in “quel” paziente. In rapporto cioè all’equilibrio complessivo del suo organismo. Un buon paziente può collaborare proficuamente riferendo sintomi e sensazioni ed applicando con scrupolo la cura. Rimane comunque fuori da ogni dubbio che il vero conoscitore di quanto accade nel corpo (della “meccanica organica” potremmo dire) del paziente è il medico e sempre lui è il solo responsabile dell’efficacia della cura.

In psicoterapia le cose stanno diversamente. Non ci interessiamo alla “meccanica organica” del paziente (salvo quei casi dove l’assunzione di farmaci interferisce con l’abituale funzionamento psichico) quanto piuttosto al processo di maturazione della persona volto al superamento delle “difese” non più adeguate. Come dicevamo nei due punti precedenti la “cura” di tutte queste manifestazioni sta nella maturazione. Questa maturazione avviene in primo luogo attraverso un contatto molto accettante e di vera comprensione da parte di un terapeuta competente ed equilibrato (ma questo non significa che accetterà senza obiettare ogni tipo di manifestazione del suo paziente). In secondo luogo attraverso quei modi particolari di entrare in rapporto (il “cosa” si fa) che costituiscono le tecniche praticate dal terapeuta. Dipende dal terapeuta a questo punto il successo della “cura”? Anche, ma mai quanto il successo di una cura fisica dipenda dal medico.

Al paziente di uno psicoterapeuta è chiesto molto, molto di più di quanto non sia chiesto al paziente di un medico. È chiesta disponibilità vera (non a parole) al cambiamento, disponibilità a mettersi in gioco e a vedere le proprie responsabilità nelle cose che non vanno, a rinunciare a voler cambiare gli altri, a comprendere il proprio funzionamento interno e a vederne l’inconsapevole e dolorosa ripetizione, ad affidarsi al terapeuta o almeno ad essere onesto nel dichiarare le eventuali difficoltà e le diffidenze. Sono frequenti casi di persone che pagano delle sedute che inconsapevolmente continuano a sabotare.

Possiamo dire che per la riuscita della “cura” ciascuno ha da fare la  propria parte e che senza l’alleanza fattiva di entrambi, oltre alla indispensabile competenza del terapeuta, difficilmente vi saranno risultati profondi e duraturi.

A volte vengono da noi persone con l’atteggiamento che potrebbero avere nel consultare un avvocato o un commercialista, cioè chiedendo consiglio su cosa debbano fare date certe condizioni che ci descrivono (per es.: problemi coi figli o con i familiari, problematiche col lavoro, paure ricorrenti, ecc). Su questo piano certamente è possibile dare delle risposte, ma se, anche con l’aiuto del terapeuta, la persona non diviene disponibile ad una auto esplorazione e ad assumersi la diretta responsabilità delle proprie interazioni con gli altri e delle proprie scelte, è facile che presto non ci sia più nulla da dire e che si ottengano solo dei cambiamenti di superficie. Anche questo è un aspetto che differenzia il lavoro psicoterapeutico da quello del medico.

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